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Speciale "L'Insegnante di canto" : La responsabilità di un rapporto importante e delicato

giovedì 01
apr 2010
Figura fondamentale per ogni studente. Oggetto di sentimenti contrastanti: rispetto ed emulazione, impazienza e incomprensione. Fonte di esaltazione o frustrazione.
Perchè è così particolare il rapporto tra studente e insegnante di canto? Meglio lo stesso insegnante per un lungo periodo o meglio cambiare? E quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere l'insegnante "ideale"?
intervengono su questo tema centrale dello studio del canto:
Antonio Juvarra con una importante intervista realizzata da Giulia, la nostra esperta di tecnica vocale.,
Massimo Sardi, Patrizia Morandini,e Valter Carignano.
 

A colloquio con Antonio Juvarra


Antonio JuvarraSuono al campanello di casa Juvarra con in mano la cartella con le domande su “Il rapporto tra allievo e Insegnante di canto”, cui www.cantarelopera.com dedica questo speciale.
Quando mi trovo davanti a lui però, e sento la sua voce calma e distesa, ma profonda e penetrante che ha su di me un immediato effetto piacevole, associo istintivamente questa sensazione positiva a quella di tutt'altra connotazione, di malessere diffuso e serpeggiante, spesso presente nelle lettere che ricevo nella mia rubrica “Giulia risponde”.
Per cui cambio repentinamente programma e, con ancora tra le mani una gradevole tazza di the caldo, entro subito in argomento.

Maestro, ricevo moltissime lettere di studenti e cantanti che manifestano un disagio diffuso, spesso dai contorni poco definiti: a volte è la paura degli acuti, altre l'ansia da esibizione, altre il non sentirsi capiti dal proprio insegnante, altre è desiderare un timbro di voce diverso dal proprio.
Tomatis sostiene che si canta perché “cantare dà piacere”, in quanto provoca una ricarica della corteccia cerebrale.
Io le chiedo: se è vero che cantare provoca piacere, come mai fa anche tanto “soffrire”?

L'elemento che porta al disorientamento, a quello che lei definisce soffrire, è intrinseco nel modo di insegnare il canto oggi, al contrario del piacere che giustamente lei ha citato prima e che è un elemento costitutivo e caratterizzante della vera tecnica italiana.

L'autentica tecnica italiana, il "cantare naturale"

A partire alla metà dell'800 c’è’ stata una biforcazione delle tecniche vocali: un filone, tuttora imperante, che è ispirato ad un controllo meccanico, diretto della voce che porta a tutte le varianti dell’emissione spinta.
Molte volte quest’emissione non e’ riconosciuta perché associata ad un suono che, soprattutto nella zona centrale, può avere delle caratteristiche di rotondità, profondità e piacevolezza. Ma in questo suono non è distinguibile quell'elemento di leggerezza, di fluidità, quello per cui Giacomo Lauri Volpi definiva il suono ideale “come calmo, leggero, rotondo, potente”. Al giorno d’oggi si è convinti che il concetto di leggerezza escluda automaticamente la potenza e viceversa; la potenza è associata con al corposità con la quale invece non ha nulla a che fare. La potenza e dell’energia della voce non sono la corposità del suono, anche se chi canta bene dà l'illusione all’esterno della voce piena.

Credo che questo sia un tema di estrema attualità perché mai come oggi si assiste al fenomeno di voci che dopo pochi anni sono già usurate, probabilmente per l'eccessiva richiesta “prestazionale” , che è, per così dire, "anti - fisiologica".
E' d'accordo su questo?

Si. Diciamo che questa è la conseguenza finale di un approccio iniziale sbagliato, nel senso che non è naturale.
Per natura non intendo qualcosa di superficiale del tipo "canta come ti viene", ma la ricerca di questa dimensione profonda che abbiamo in noi stessi.
Se si leggono i trattati di canto antichi si capisce che il leit motiv, tante volte latente e sotterraneo, è questa continua insistenza sulla "naturalezza" presente magari sotto forma di aggettivo: "naturale", o avverbio: "naturalmente".
E' come se subliminalmente il trattatista, penso per esempio a Mancini (Giambattista Mancini,“Riflessioni pratiche sul canto figurato”, 1778 n.d.r.), che per certi versi è molto superiore a tutti i trattatisti dell'800 in quanto ha una concezione dinamica e acustica della voce e non meccanicistica, insiste continuamente sulla naturalezza.
O penso a Francesco Lamperti, (1811-1892, autore di molti trattati tra cui “L'arte del canto", Ricordi 1883 n.d.r.) che può considerarsi il Garcia Italiano (ma poiché non è spagnolo non viene pubblicato in Italia... ).
Questi ad un certo punto definisce i difetti principali della voce.
Secondo lui sono:
1. Voce frontale
2. Voce in maschera
3. Voce in gola
4. Voce nel palato
Ossia tutte le localizzazioni coscienti del suono in punti precisi dell’apparato di risonanza, che portano alla condizione di distorsione acustica. Questa distorsione acustica viene compensata con un surplus di appoggio che non è altro che spinta, e non viene riconosciuta come tale ma, erroneamente, come "appoggio".
Lamperti inoltre dice che gli allievi per gratificarsi nel sentire la propria voce la mettono in gola , definendo quello che diventerà poi il cosiddetto "affondo" , nato nella metà del' 800 e di cui Giraldoni ne è un illustre esempio (Leone Giraldoni, Baritono 1824-1897 n.d.r.), o sul palato rendendo artificiale la voce.
invece nel canto ci vuole: “natura, natura e poi ancora natura”.

Questa è la concezione sbagliata di partenza. Per riassumere, la formula del canto all’italiana è quella che è stata definita dal castrato Pacchiarotti (Gaspare Pacchiarotti 1744-1821 n.d.r.)…"Chi sa ben respirare e sa ben sillabare saprà ben cantare”. Il problema è che per sillabare o dire, oggi s’intende il declamato drammatico dell'attore e invece non è questo. Piuttosto si tratta di mantenere gli stessi movimenti fluidi, normali, sciolti del parlato e non del declamato o del rafforzamento dell'articolazione. Così l'articolazione fa da sintonizzatore del suono puro.

Respirazione e articolazione

L'altro ingrediente è il respiro. Nella maggior parte dei casi oggi la respirazione viene realizzata in modo meccanicistico, localizzato, segmentato, prettamente anatomico, e quindi viene vista solo nella sua dimensione di fonte dell'energia del suono, del' motore della voce. Mentre nei trattatisti antichi a partire da Mengozzi (Bernardo Mengozzi 1758-1800 n.d.r.), che è il primo a parlare di meccanica respiratoria in un modo poi sconcertante perché parla di innalzamento del torace, si afferma che chi non sa respirare bene, non può dare alla voce non soltanto l’energia ma anche la rotondità.
La stessa cosa dice Lamperti quando parla del rapporto che c'è tra il colore della voce e la modalità della respirazione. Da qui si capisce che l’unico modo per aprire correttamente gli spazi di di risonanza e’ la corretta respirazione naturale .
In sostanza la tecnica vocale deve essere concepita come un riduttore di complessità.
La meta è tornare ad una facilità naturale, ovviamente difficile da raggiungere, in cui deve continuare ad esistere la fluidità dei movimenti del parlato con un leggero aumento degli spazi di risonanza senza però intaccare l'autonomia di questo elemento del dire. Nelle tecniche odierne invece, l'articolazione, (non mi riferisco alla dizione: anche se la comprensibilità del testo dipende anche dal fatto che una emissione libera si basa su un'articolazione libera), è pensata in questa direzione.

Nella maggior parte dei casi gli insegnanti pre-impostano sia la cavità di risonanza sia l'appoggio. In questo modo vanno nella direzione opposta, ossia di una coordinazione muscolare rigida. A quel punto il corpo perde la flessibilità, la capacità di adattarsi istantaneamente alla nuova situazione vocale e va in distorsione acustica. Vengono poi quindi i vari rimedi che sono “tamponamenti” provvisori che servono ad arginare un problema e non a risolverlo, ma ai quali si è costretti a ricorrere.

• Questa è la base del suo pensiero di concepire la tecnica vocale, che è ormai ampiamente noto. Possiamo dire, per fare un esempio concreto, che Beniamino Gigli rappresenta l’emblema di quello che lei ha esposto?
Si, certo. Esattamente.
...e non si può dire che Gigli avesse una voce poco udibile o poco piena, pur cantando come si dice, "sul fiato" ossia senza questa eccesso di compressione o di forza, e richiesta di prestazione sempre alta che è caratteristica della vocalità più diffusa oggi.

• Sulla base delle tante domande che ricevo su www.cantarelopera.com credo di poter dire che questo sia il vero nodo della questione, perché troppe voci ormai, anche importanti, (ci sono esempi a dir poco clamorosi), si usurano presto. Per non parlare dei problemi di natura clinica cui vanno incontro moltissimi giovani che vogliono aderire a questo modello esageratamente prestazionale del canto e che, dopo pochi anni dal debutto "spariscono" o cominciano una sorta di calvario medico-curativo che difficilmente li riporta all'integrità iniziale!
Siamo quindi anche qui ad un bivio: ritornare ad un emissione rispettosa della fisiologia improntata a quello da lei definito "canto naturale" , o raffinare ancora e rendere, per così dire, sempre più disponibili le cure mediche o le tecniche d'intervento per ridurre i danni provocati da un'emissione forzata e prolungata nel tempo. Un po', se mi consente il paragone, è come alimentarsi in maniera sbagliata e poi prendere i farmaci per ridurre i danni causati dall'eccesso di grassi o di zuccheri ingeriti, Concorda?

In pieno!

• Lei è conosciuto come uno dei più autorevoli Insegnanti di canto italiani.
I suoi testi sono molto noti e utilizzati nei Conservatori di Musica, alcuni tradotti in altre lingue.
Prima di dedicarsi all'insegnamento ha fatto il cantante a tempo pieno, esibendosi nei più grandi teatri italiani ed esteri.
Quando ha smesso di cantare in Teatro e, se posso permettermi, perché?
E Cosa l'ha spinta a dedicarsi alla didattica in modo così appassionato?

Ho fatto il cantante a tempo pieno e ho smesso intorno al 92/93. Da quel momento mi sono dedicato allo studio della tecnica vocale italiana "doc". Ho smesso di cantare, forse perché statisticamente il "doppio talento" è molto raro. Non intendo dire con questo che non avessi voce, ma nel senso che, come si dice, io credo che esista un luogo dove “sappiamo chi siamo”. Per il cantante che ha successo di solito è il palcoscenico. Io mi trovo a mio agio nella didattica, più che nel calcare le scene. Se dovessi definire il luogo dove “so chi sono io” direi: lo studio di casa mia e le  montagne... (“Le Dolomiti, immagino....” - ride – “Si, esatto!”)
Ho una tendenza più introspettiva, anche perché nel canto e’ fondamentale, soprattutto come insegnante, l’aver sperimentato in prima persona determinate sensazioni ed esserne cosciente. E’ importante quindi sapere quale è il rapporto che esiste tra le sensazioni e il risultato tecnico. Proprio perché come abbiamo visto il controllo della voce più raffinato non e’ quello di tipo meccanicistico ma senso-motorio.
Vi sono delle sensazioni fondamentali che non sono solo soggettive, cioè sono ad un tempo soggettive e universali. Questo arcobaleno di sensazioni costituisce la" tastiera "del cantante. Non dunque il controllo diretto meccanico di singole parti del corpo, cui si può attribuire solo il 10-20% dell'atto cantato. E’ una consapevolezza corporea raggiunta attraverso le sensazioni.
Attraverso questa capacità di scavo delle sensazioni, e quindi il potere delle sensazioni si ottiene l’emissione giusta.

La funzione dell'ascolto.

• Che importanza attribuisce all'ascolto, all'auto-ascolto? In fondo anche l'ascolto può definirsi in senso lato una sensazione...
L’ascolto/auto-ascolto: questione delicata. Nel canto si ascolta quello che si vuole ascoltare.
A differenza della voce parlata (che solitamente riascoltata non piace) nel canto si riascolta e si sentono soltanto quelle componenti del suono che danno una certa gratificazione, e non ci si accorge degli elementi più impalpabili o sottili che invece determinano il salto di qualità e fanno la differenza tra questa forma suprema di canto che è il canto all'italiana e gli altri surrogati più o meno meccanicistici.
Faccio riferimento anche alla mia esperienza personale.
Nei primi anni di studio mi ascoltavo ed ero molto compiaciuto della mia voce. Riascoltandomi a distanza di tempo, dopo aver cambiato radicalmente la mia concezione di suono, non riuscivo a capire come avessi potuto trovare gradevole la mia voce, mentre in quel momento non mi accorgevo dei difetti e vedevo solo la parte “chiara “del suono.
L'auto-ascolto non è il primo parametro di valutazione dell'emissione vocale: la sensazione principale di riferimento del cantante è tattile, cinestesica, come detto. Percepire come un suono scivola con semplicità, con estrema facilità, fluidità. Questo criterio di riferimento delle sensazioni ci rende indipendenti dall’acustica della sala dove cantiamo. La sensazione della fluidità, la sensazione tattile del suono prescinde dalla risposta acustica del luogo dove ci troviamo.
Poi ovviamente è giusto occuparsi anche dell'analisi dell’acustica del suono.

Gli elementi yin e yang nella voce

L’errore che si fa oggi è quello di essere attenti soltanto alle qualità positive del suono, in termini di estrema brillantezza o meramente quantitativi: più “brillante” è il suono più lo si apprezza, più è “corposo” più lo si apprezza, più è “rotondo” più lo si apprezza, con diverse combinazioni a seconda delle varie scuole.

Mentre invece la Scuola Italiana con il concetto illuminante di canto “sul fiato,” canto “aereo”, ha individuato quello che nelle culture orientali chiamano l’elemento “yin”, in questo caso della voce, e non soltanto quello “yang”. Se si assolutizza la brillantezza o la corposità queste qualità non si sposeranno mai con la caratteristica vocale della morbidezza che è invece l’ombra del suono. Questa si manifesta in senso negativo, in forma pura, cioè inizialmente come suono quasi vuoto ,però molto leggero, molto fluido, naturalmente alto. Quindi non è rendendo la voce sempre più brillante o “in maschera” che si canta meglio.
In questo modo si sarà probabilmente eliminato l'elemento yin della voce.
E' come quello che succede con la luce: Se ci fosse luce assoluta non vedremmo nulla, ed è grazie all’ombra che riusciamo a vedere a distinguere le forme. La stessa cosa è nel canto: l'elemento distintivo della tecnica italiana è questo elemento in ombra e quindi impalpabile, indefinibile (e per questo trascurato) della morbidezza e della fluidità, piuttosto che la ricerca immediata, fin dall'attacco del suono, delle qualità "positive" ,“Yang”, descritte.

• Mi ha colpito moltissimo questo suo cenno alla luce e all’ombra del suono perché riguarda l’ombra e la luce dell’anima, un incontro inevitabile per chi canta.
Adesso torniamo a quello che sarebbe dovuto essere il punto (felicissima di non aver rispettato la “scaletta”).
Lo speciale su www.cantarelopera.com vuole guardare la figura dell’Insegnante di canto da un punto di vista particolare, quindi entriamo nel rapporto che si instaura tra insegnante e ’allievo.
Chiunque insegni o studi canto sa che questo rapporto è diverso da qualsiasi altro rapporto docente-discente: deriva dalla natura stessa del canto che, per il suo peculiare intreccio di interazioni psico-fisico-emotive, “costringe” l'allievo (e l'insegnante) a entrare in contatto con il sé più profondo, spesso con le proprie intime paure.
Mettersi “in gioco” completamente è la condizione indispensabile per trovare la propria vera essenza vocale, o, detto con una sola parola magica, la propria “voce”. E' d'accordo?

Allievo ed insegnante

Si. Diciamo che la problematica dell'insegnamento del canto secondo me si pone in questi termini: c’è una capacita’ di comunicazione che accomuna anche l’insegnamento di altri strumenti musicali.
Ciò che lo differenzia deriva dalla natura del canto, come ha detto lei, e anche dalla peculiarità’ dell’insegnante.
Se l’insegnante e’ stato un grande cantante, tende a cercare di fare dell’allievo una copia di se stesso, non partendo quindi dalle esigenze intime del canto ma solo per ciò che riguarda semplicemente il risultato vocale, l’effetto esterno. Ci sono altre componenti psicologiche poichè la deformazione professionale del cantante famoso è l’egocentrismo. Questo tende a riproporsi quando il cantante scende dal palcoscenico e comincia ad insegnare. Io ritengo invece che sia necessario porsi completamente al servizio dell'allievo; entrare empaticamente nel corpo dell’allievo ed essere quindi consapevoli del rapporto che c’è tra determinate coordinazioni muscolari e determinate sensazioni.
Lei diceva “mettersi in gioco”: questo è vero in questo senso: di solito chi che comincia a cantare pensa di sapere già qual è il suono giusto e quindi canta con un pre-condizionamento o pre-giudizio sbagliato perché pensa già di sapere cosa deve cercare e quali sono i parametri di valutazione.
Quasi sempre fa riferimento a componenti del suono assolutizzate: per esempio la rotondità e lo spazio inteso sia come spazio di risonanza che da un senso di comodità’, sia lo spazio verticale (ed ecco il motivo per cui se uno fa l’imitazione del cantante operistico userà la vocale “o” nella versione più appariscente ma squilibrata).

La vera ricerca di se stessi è invece capire cosa avviene nel corpo a livello di sensazioni e di movimenti … una consapevolezza di tipo orientale direi, nel senso che non si tratta di controllare attivamente o di fare il movimento che si ritiene corretto (a qualsiasi livello, può riguardare la respirazione, l'articolazione ecc,) ma di “lasciare avvenire” il movimento giusto, che è quello naturale prendendone coscienza e sapendolo integrale con altri aspetti della voce. Da questo punto di vista io dico sempre che il canto è un’arte femminile perché presuppone una sensibilità e duttilità che spesso manca alla mente maschile che tende più al controllo volontario, al dominio. In questo modo è facile sfociare nel canto spinto perché si instaura una lotta tra leggi universali, cosmiche e quelle che uno pensa soggettivamente siano i meccanismi che danno vita ad un suono buono.

Molte volte c’è un equivoco che riguarda il tipo di scienza del canto: si scambia il canto come un ambito della fisica meccanica quando invece riguarda la fisica acustica. Ci si illude (perché c’è questa possibilità di illusione) che il suono sia un oggetto che possa essere portato in punti privilegiati della cavità di risonanza e così non è. Si tratta ancora una volta di cercare la consapevolezza del proprio corpo, delle dimensioni, delle sensazioni e dei movimenti di piccoli o grandi muscoli.

• Torniamo alla "sofferenza" che accompagna lo studio del canto. E' proprio inevitabile?
Ripeto che la sofferenza nasce perché di solito l’insegnante non è consapevole della dimensione della naturalezza .. la causa di molti problemi sta nel fatto che ha insegnare a volte sono grandi cantanti.
Il grande cantante di solito è un “portatore inconsapevole” di voce ovvero nasce con l' 80% della propria voce “emersa”. In questo modo la sua consapevolezza sarà orientata solamente verso gli elementi residui che ha appreso razionalmente e su quelli focalizza la propria attenzione, perdendo il rapporto con l’altra dimensione di cui è totalmente inconsapevole.
Per esempio Alfredo Kraus aveva una morbidezza sua innata, particolare. Probabilmente avrà ricevuto della sua insegnante l’elemento della brillantezza. Quando è iventato a sua volta insegnante ha esasperato questa caratteristica del suono interpretandola meccanicisticamente (anche confusa anche con la nasalizzazione che non ha niente a che fare col suono in maschera, a partire da Tosi [Pier Francesco Tosi, 1654-1732 autore di Opinione de' cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato, considerato un caposaldo dell'antica scuola di canto italiana n.d.r.] che appunto vietava il “vizio “del naso).
Quindi in questo caso ci si trova di fronte ad analizzare un cantante che istintivamente usava (a parte la nasalità) l'autentica tecnica italiana ma come insegnante si ritrovava a dire cose che la sconfessavano.
Il problema ancora più grave è quando il cantante è dotato di una natura così grande da cantare sommariamente bene nonostante la tecnica sbagliata sui si basa …
Unl caso emblematico è quello di Mario Del Monaco che usa la sua natura esorbitante in tanti modi e riesce ad ammortizzare il pericolo , il danno causato dalla tecnica di squilibrio vocale dell’affondo.
L'allievo del grande cantante, mettiamo proprio di del Monaco, stabilirà un falso rapporto causa effetto: penserà: "se questo cantante ha questa voce vuol dire che la sua tecnica è giusta" ed è alla base della sua impressionante gamma di suoni in relazione al volume e alla rotondità.

L’altro problema è dato dal fatto che un allievo di solito è impaziente, e vuole ottenere subito dei risultati, un suono che lo gratifichi confermandogli la propria identità di cantante.
Il primo spazio di risonanza che trova è lo spazio verticale modellato sulle vocali scure come la “o” . E' compito dell’insegnante fermarlo e indirizzarlo verso un'altra emissione senza dare troppo credito ad un suono che, benché squilibrato nella coordinazione delle cavità di risonanza, può essere tutto sommato accettabile nella zona centrale in relazione alla rotondità, al volume ecc.

Gli acuti

E, ad esempio, per toccare un altro tema sempre discusso, gli acuti, sarà proprio quell’elemento in eccesso, esorbitante nella zona centrale che poi provocherà problemi nella tessitura alta della voce.
Sappiamo benissimo, come diceva Giacomo Lauri Volpi, che ogni nota è la base della successiva e quindi la causa degli acuti buoni o cattivi si ha nel centro della voce dove, d'altronde, di solito iniziano le arie. Quindi trascura questo elemento che invece poi è determinante.
Lo trascura in due modi: eccedendo in corposità appesantendo il suono e così se ne pagano le conseguenze nella zona acuta oppure lo sottovaluta per quel che riguarda anche il tipo di respirazione. Quindi diciamo che negli acuti viene alla luce, viene esaltato quello che facciamo sia in bene che in male. Ma di solito l’allievo tende a cercare la soluzione dell'acuto nell'acuto stesso.

Se mi permette vorrei aggiungere un'ultima cosa che potrebbe essere utile per una giusta comprensione dei rapporti tra insegnante allievo… io dico che la ricerca del suono giusto è fatta congiuntamente da insegnante e allievo.
L’insegnante aiuta l’allievo a trovare in se stesso la verità. Questa verità si trova se c’è questa coincidenza d'intenti.
Ossia presupponendo che l’insegnante abbia l'idea del suono giusto, questi deve dare l’approvazione per quanto riguarda il risultato sonoro e l’allievo deve dare l’approvazione per quanto riguarda facilità e la comodità del suono. Se non c’è questo accordo bisogna cercare un’altra soluzione. Nel senso che se per l’insegnante il suono è corretto ma per l’allievo è scomodo non è il suono giusto e viceversa. E' un po’ come quando si calzano delle scarpe … solo chi le calza quanto sono comode, se si limitano a non far male o perché danno un senso di riposo al piede… solo chi la indossa sa! Così solo chi produce un suono sa le infinite gradazioni che vanno dalla sofferenza al non far male, alla comodità, al senso di libertà e di euforia che è poi il motivo per cui il canto attira tanta gente.
Il canto è un'esperienza estatica, perché è ti da la sensazione di trascendere le leggi naturali, come la gravità per esempio. Motivo per cui infatti nel canto si usano delle metafore che hanno a che fare con l’aria, la leggerezza…la lucentezza.. In questo modo si riesce ad entrare in una dimensione in cui la potenza vocale non è più associata alla pesantezza e alla fatica alla forza di gravità: questo è il potere estatico ed euforizzante del canto.

• Bene. Lei ha detto talmente tante cose che invitano ad una lunga riflessione.
Sappiamo che non e’ detto che un bravo cantante sia anche un buon insegnante ma e’ anche vero che ci sono degli insegnanti che non hanno cantato abbastanza … quindi l’ideale sarebbe trovare una via di mezzo.
Lei ritiene che potrebbe esserci un percorso formativo per cantanti che vogliano insegnare e che li metta in condizione di "imparare ad insegnare" al meglio delle loro possibilità dando loro strumenti e indicazioni per instaurare rapporti proficui con i propri allievi da tutti i punti di vista?


Lo ritengo indispensabile. E qui ritorniamo nelle peculiarità del fenomeno del canto quindi tanti cantanti si ritrovano con una voce sommariamente utilizzabile in campo professionale e quindi ritengono che lo studio della propria voce e quindi poi la trasmissione di quello che si fa di quello che si fa una volta divenuti insegnanti sia un fatto scontato.
Aggiungerei a questo anche l’aspetto individualista o egocentrico anche dell’allievo italiano.

Anni fa all’accademia di Osimo dove insegno è stato costituito un corso per Insegnanti di canto dove, in pratica, venivano persone che avevano problemi di voce e quindi dal corso per cantanti ripiegavano su quello per l’insegnamento… Quello che mi ha sconcertato e che mi ha portato a chiudere questa sperimentazione è che gli allievi facevano solo la loro lezione e non avevano il minimo interesse a fermarsi ad ascoltare la lezione dei compagni. Trovo la cosa assurda! Se mi trovo in un corso per insegnanti dovrebbe essere scontato, automatico, logico voler sentire come vengono risolti i problemi di altre persone. Invece questo egocentrismo, questa centralità su se stessi costituisce un grande limite nel mondo del canto in Italia.

• Parliamo invece degli allievi bravi, quelli che hanno veramente voglia di imparare di capire che vogliono andare a fondo e non ne hanno paura , puri, che hanno la costanza e le doti per poter cantare pero’ si trovano inevitabilmente di fronte alle prime difficoltà che, fisiologicamente arrivano nello studio del canto…
Molti di fronte a tali difficoltà entrano in crisi e in un circolo vizioso dal quale è difficile da uscire. Quindi cosa consiglierebbe: pazienza? Calma ?
Per un allievo non è semplice valutare un insegnante, non può capire fino in fondo se quello che fa è giusto o meno. comincia quindi un "pellegrinaggio" da una parte a l’altra …. Molti si smarriscono.
Che consiglio dare a questi ragazzi disorientati e che non hanno un rapporto soddisfacente col proprio insegnante?


Diciamo che dopo due o tre anni di studio è giusto cominciare quello che lei ha definito "pellegrinaggio” per trovare la verità di qua e di là. E' un po’ come un puzzle, ogni insegnante tende a privilegiare un aspetto del canto a discapito di altri. L' allievo deve partire dal principio per cui quello che viene proposto da qualsiasi insegnante deve risultare semplice e facile, non deve comportare complicazioni (per cui uno cantando non può pensare a più di due o tre cose). Se così non è sta cantando in modo sbagliato allora io dico che è giusto cominciare a guardarsi intorno. Non di rado mi ritrovo di fronte a persone, magari non con grandi problemi, ma impostate male che hanno studiato per sette o otto anni con lo stesso insegnante: questo è inconcepibile!

• Quindi possiamo concludere dicendo che l’insegnante è un fondamentale punto di partenza e di riferimento, ma che la strada giusta per la propria voce bisogna trovarla da sé?

Si certo, sicuramente!

Grazie al Maestro Antonio Juvarra, per questa che è certamente, come lui stesso ha affermato, la più importante e approfondita intervista rilasciata.
Grazie, non solo per questa nota di privilegio che conferisce così a www.cantarelopera.com, ma soprattutto per i temi trattati, che vanno oltre le problematiche cui siamo abituati a occuparci quando si parla di canto.
La riflessione stimolata da questi temi trascende le questioni tecniche o musicali: l'anima e il segreto del canto sono, ancora una volta, e inesauribilmente, tutti da indagare.

Giulia

Insegnare Canto: che fare?
di Massimo Sardi


Massimo SardiInsegno canto da quasi trent’anni e nonostante abbia anche cantato professionalmente a vari titoli, appartengo alla sparuta minoranza che ha scelto di essere insegnante prima che cantante. Nonostante questo, o forse proprio per questo, non ho la pretesa di affrontare con obbiettività, né tanto meno trattare con completezza, un argomento così complesso.
Tuttavia penso sia giunto il momento (e ringrazio per questo la redazione di Cantare l’opera® che me ne da l’occasione), se non di fare chiarezza, almeno di aprire un confronto di vedute su una figura professionale – il maestro di canto - che, come oggi è percepita dall’opinione pubblica, sfugge ad una valutazione obbiettiva: da una parte mitizzata, dall’altra troppo facilmente denigrata, per non dire di peggio. Si sa, quando il cantante è bravo il merito è suo, se canta come un cane è colpa del suo insegnante.
In ogni caso l’orizzonte dei delicati rapporti fra docenti e allievi non è sgombro, ne fa fede proprio la crescente, diffusa diffidenza che da parte di questi ultimi aleggia nei confronti dei primi. Le ragioni sono di varia natura e, non interessando solo l’ambito di questo breve intervento, esulerebbero dai suoi scopi.
Tornando al nostro problema e al di là dell’ovvio, cos’è un insegnante di canto? O meglio, chi oggi fa questo mestiere, può riferirsi ad una tipologia professionale consolidata da una tradizione, quella che si usa chiamare “una scuola” (e che a noi italiani, dà ancora un credito particolare in campo internazionale), o forse è doveroso fare un bilancio e verificare quanto il nostro operare corrisponda effettivamente ai tempi nuovi e alle aspettative dei futuri cantanti? Il mercato del lavoro se da una parte si è fatto più avaro di possibilità occupazionali, dall’altro si è allargato a nuovi generi musicali e pone il problema di garantire professionalità in ambiti diversi.
Se questo è il punto da cui partire, e su cui vorrei riflettere, non possiamo che constatare quanto la nostra utenza sia cambiata e si impone una valutazione dell’impatto che questo fattore ha in termini operativi sull’attività di insegnamento. Il soggetto che oggi si presenta all’inizio dei percorsi formativi di canto ha in genere più aspettative, ma meno sicurezze vocali di quello del passato. L’uso della voce, anche quella cantata nella sua accezione più elementare, è un’abilità che si apprende per imitazione e oggi i riferimenti su cui orientarsi per muovere i primi passi in questo senso sono notevolmente più complessi che una cinquantina di anni fa. L’industria dello spettacolo ha legittimato un numero rilevante di emissioni, anzi nel campo della musica leggera (ma non solo, basti pensare al fenomeno Callas) spesso una vocalità “difettosa” è indice di maggiore personalità che una esente da difetti. D’altra parte le conquiste sociali in fatto di diritto allo studio, corroborate da un certo pragmatismo, stimolano all’apprendimento del canto un sempre maggior numero di persone. Chi insegna, se ha il sacrosanto dovere di non creare illusioni, ha anche quello di non rifiutare il piacere del fare musica a chi lo richiede e ne possiede i requisiti di base: una voce sana e buon orecchio musicale. In fondo si può godere di quest’arte anche se non si utilizza a fini professionali. Se gli insegnanti di pianoforte o di violino dovessero occuparsi solo di chi diventerà un concertista, avremmo le classi di questi strumenti praticamente vuote.
Ne consegue che, per ciò che concerne il canto d’arte (questo è l’ambito a cui vorrei limitarmi), non basta più stimolare un’innata vocalità, ma spesso è necessario chiarire strutture di fondo, circa l’emissione del suono, che occorre cercare proprio al di là del mero fatto istintuale, quasi il recupero di una memoria sonora perduta.
Non si tratta di scegliere fra insegnante stimolatore e insegnante manipolatore, come spesso si argomenta: al di là di un facile buon senso, uno non esclude l’altro. Anzi vorrei far notare come lo stesso processo di apprendimento avvenga in maniera dialettica, dove il momento della lezione è sicuramente centrale e insostituibile, ma quest’ultima verrebbe vanificata senza un adeguato lavoro individuale dell’allievo. Anche le piccole acquisizioni tecniche che il principiante mette a fuoco con il maestro, hanno bisogno di essere sperimentate individualmente e maturate in quel processo di organizzazione della vocalità che deve essere fin dall’inizio gestito da chi canta. In fondo la parte più proficua di una lezione è proprio quella che mette in discussione l’equilibrio raggiunto per trovarne uno migliore, e che lo studente dovrà di nuovo consolidare individualmente con lo studio.
Allora, per tornare alla domanda di partenza, quale insegnante di canto?
Se dobbiamo trarre indicazioni da quanto detto finora, sicuramente occorre ridefinire questa figura attraverso più ampie e affinate competenze specifiche, fra le quali una preparazione di base, tecnica e musicale, che vada oltre la prassi didattica ordinaria, mediamente in vigore nei corsi di canto. Le strutture pubbliche delegate alla formazione musicale non sembra abbiano gli strumenti per darla. Nel Conservatorio, anche nella veste riformata di Istituto di Alta Formazione Musicale, non esistono corsi di didattica della voce (come non esistono per qualsiasi strumento, e dovrebbero esserci) e praticamente nessuno insegna ad insegnare. Si da per scontato che chi ha imparato a cantare, lo sappia anche trasmettere agli altri.
Gli spazi e le occasioni per aggiornarsi, comunque, ci sono, visto l’interesse che è sorto negli ultimo anni intorno al fenomeno della voce. Il percorso più interessante è senza dubbio il Corso di Vocologia Artistica di Ravenna che fa capo all’Università di Bologna, ma corsi e seminari sulla voce vengono attivati anche da Associazioni private in molte parti d’Italia; l’AICI-Associazione Insegnanti di Canto Italiana e la testata che ospita questo scritto ne sono un esempio. La cosa essenziale è la disponibilità ad arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e soprattutto una sana capacità di confronto e di dialogo, cose di cui sono a volte purtroppo carenti gli insegnati di canto in Italia.
Volendo riassumere, due sono le direttrici su cui principalmente muoversi, e ricalcano grosso modo i due aspetti dell’insegnare: quello tecnico e quello musicale.

1 - Tutti i musicisti, e ancor più quelli che insegnano, conoscono perfettamente come funziona il loro strumento. Perché i cantanti ne hanno solo un’infarinatura che spesso si riassume nel concetto trino diaframma-appoggio-maschera? Si sente ancora argomentare che scendere nei dettagli del meccanismo fonatorio sia inutile, se non dannoso, al canto d’arte, che confonda le idee al cantante (cosa che risale all’indomani della pubblicazione della “Memoria sulla voce umana” di Manuel Garcia nel 1847); in fin dei conti, non è “con il cuore” che si deve cantare? Riflettere seriamente sull’insegnamento del canto dovrebbe cominciare proprio dall’evitare l’uso di argomenti del genere. Una didattica che funzioni non ha bisogno di retorica, anzi, oggi soprattutto, richiede un linguaggio asciutto, chiaro ed efficace.
Per cominciare, appunto, chiarezza sul funzionamento dell’apparato vocale. Competenze in fatto di fisiologia, infatti, permettono all’insegnante di proporre all’allievo una base di riferimento obbiettiva su cui lavorare, contribuendo così ad ovviare in parte allo svantaggio di non poter controllare visivamente le strutture corporee coinvolte. È da questa conoscenza che l’insegnante deve trarre le indicazioni per elaborare la propria strategia didattica di impianto della voce, ed a questa realtà funzionale garantirne la congruenza. L’obbiettivo auspicabile è rendere possibile una pedagogia che faccia solo sporadicamente uso di immagini e si esprima con concetti più possibile aderenti alla realtà del fenomeno di cui si occupa. Le più recenti acquisizioni in fatto di meccanismi laringei, gli ultimi studi sul meccanismo diaframmatico, la moderna analisi del comportamento acustico del tratto vocale, aspettano ancora un inserimento sistematico nella prassi dell’insegnamento.

2 - I cantanti devono indirizzare i propri interessi su un orizzonte musicale più vasto, ma soprattutto ampliare la loro attività a repertori diversi. Non solo opera, oratorio e musica da camera (e già sarebbe un passo avanti), ma questi tre ambiti perlomeno anche in tedesco e francese. Un musicista (e il cantante deve ritenersi tale al pari di tutti gli altri) non può ignorare la civiltà musicale nella sua interezza; e a proposito di repertorio non può esimersi dal frequentare il Lied, la musica di oratorio o il repertorio operistico francese e tedesco. Aprirgli questa prospettiva è compito dell’insegnamento. Mi sono sempre chiesto perché personaggi del calibro di Corelli, Tebaldi, Callas, Olivero, Simionato, e più vicino a noi Pavorotti, Bruson, Bergonzi, Freni, abbiano cantato solo opera e praticamente solo in italiano, mentre i loro colleghi Kipnis, von Hotter, Schwarzkopf, de los Angeles, Price, Troyanos, Fischer-Dieskau, Horne, Ramey, potevano cimentarsi anche nel Lied, nell’oratorio, qualcuno anche nel repertorio barocco e nel musical, e tutti perfettamente in almeno tre lingue. La risposta è che un certo tipo di scuola (il nostro?) non prepara né stimola questa versatilità. È naturale che per fare questo il cantante deve avere acquisito la flessibilità tecnica necessaria (e rimandiamo al primo aspetto trattato) per adeguare la propria vocalità ad altri canoni interpretativi. E questo non solo per un fatto di serietà – io aggiungerei dignità - professionale, ma anche perché non tutti i giovani talentosi potranno trovare accoglienza sui palcoscenici operistici, o almeno non in maniera continuativa (specialmente in periodi di crisi). Già cantare in un coro professionale richiede specificità che nessuno insegna ai nostri allievi e avere la possibilità di un repertorio più vasto significa avere ulteriori possibilità occupazionali. Gli insegnanti devono poter rispondere a queste esigenze se vorranno soddisfare adeguatamente la richiesta di professionalità delle nuove leve, e dovranno maturare un bagaglio di competenze anche in questo senso: dalla conoscenza di contesti musicali diversi a quella delle regole basilari di pronuncia almeno del tedesco e del francese (ma meglio, o col tempo, sarebbe bene includervi anche lo spagnolo e l’inglese). Un ultima considerazione: l’aprirsi ad altri repertori (penso soprattutto al Lied e alla musica oratoriale barocca) ha poi un’altra grossa valenza, didattica e musicale insieme. Può essere, infatti, il supporto ideale per disporre di un corpus di brani, di notevole qualità musicale, dove la voce dei principianti può provarsi in un ambito di suoni centrali, senza dover affrontare le difficoltà del registro acuto. Questo per evitare un prematuro accesso al repertorio operistico che troppo spesso è affrontato quando ancora la voce non ha raggiunto l’adeguato equilibrio per gestirlo senza danni. Per esperienza personale posso aggiungere che l’esercizio articolatorio in una lingua diversa dalla propria, è di grande utilità per la scioltezza della mandibola e la mobilità della lingua.

Conclusioni
Come lamentavo in apertura, l’argomento avrebbe bisogno di approfondimento, per cui trovo indovinata l'idea dell'apertura del forum dedicato all'argomento da parte di www.cantarelopera.com. Le problematiche che attengono alla figura dell’insegnante (o al rapporto fra insegnante e allievo, che è poi la stessa cosa) e che personalmente ritengo abbiano necessità di una definizione più obbiettiva, sono ancora tante: il problema dell’unificazione del linguaggio pedagogico, la classificazione della voce, le tipologie vocali, il delicato rapporto fra fedeltà al testo e tradizione operistica, i problemi di interdisciplinarietà con le altre figure professionali legate al canto. Tutte avrebbero bisogno di una trattazione a parte e/o di un dibattito proficuo e chiarificatore. Per troppo tempo la nostra scuola di canto ha vissuto di rendita. In nome della tradizione, e forse in virtù di un’atavica pigrizia intellettuale, invece di capitalizzare il patrimonio musicale che ci ha resi famosi nel mondo, l’abbiamo conservato sotto il materasso. La tradizioni sono un bene prezioso, ma solo a patto di farle diventare le radici del futuro.

Massimo Sardi

La via della semplicità
di Patrizia Morandini


Patrizia MorandiniLa relazione allievo e insegnante sta alla base di un buon  insegnamento tecnico vocale, lavorare con la voce di una persona è complesso perché la voce è direttamente collegata alla psiche e  all' identità della persona stessa.

L’ insegnante di canto ha una responsabilità molto maggiore di altre discipline musicali e  se ne deve rendere conto.
Personalmente  uso un approccio molto diretto ed empatico con i ragazzi, cercando di comprendere la loro personalità  ma iniziando subito col metterli a loro agio adottando comportamento autorevole mai autoritario,  così che loro  possano abbandonare le tensioni che eventualmente sentono, perché percepiscono  che da me non sono criticati , ma bensì aiutati nella  scoperta della loro voce.
Credo sia fondamentale che la tecnica sia spiegata in modo chiaro e con poche parole, dando il più possibile indicazioni di tipo fisico di facile comprensione, eliminando il più possibile termini empirici  ma concentrandosi  sulla chiarezza e la  naturalezza dell’ emissione. Per naturalezza intendo la eliminazione di tutte le tensioni emozionali che impediscono un buon funzionamento dei muscoli sia diaframmatici che laringei: per fare questo è necessario che l’ allievo comprenda che il percorso che stà iniziando è un viaggio all’ interno del suo corpo e va intrapreso con molta calma e infinito divertimento.

Io cerco di analizzare e il carattere  dell’ allievo e di agire di conseguenza, cercando l’ approccio meno invasivo, e’ importante che lo studente comprenda che la voce lirica non va costruita ma scoperta, e cioè che la voce fa già parte di lui e che col maestro deve trovare solo la strada giusta per poterla usare nel modo corretto. E’ fondamentale che si capisca questo per evitare di falsare i timbri cercando un suono prestabilito, il giusto suono è essenzialmente il risultato di una corretta emissione .

E’ necessario far prendere consapevolezza da subito dei meccanismi fisici che determinano l’ emissione vocale. Ciò va spiegato in modo semplice e immediato senza rimandare al futuro , perché la comprensione ( ad esempio del movimento respiratorio) è subitanea, il suo automatizzarsi verrà col tempo, ma senza la comprensione non sarà mai possibile.

E’ probabile che si instauri con l’allievo un rapporto di affetto, questo può essere un bellissimo sentimento, ma al momento opportuno (una volta terminato il percorso di studio) lo studente deve  intraprendere la sua strada in modo autonomo, è compito del  maestro allora distaccarsi e permettergli di camminare da solo, magari sapendo che potrà tornare  ogni qual volta ne senta la necessità.

Patrizia Morandini

La centralità della comunicazione
di Valter Carignano


Valter CarignanoIl rapporto fra insegnante di canto e allievo - e conseguentemente di come il primo possa trasmettere al secondo tutte le necessarie informazioni tecniche, interpretative e stilistiche - è uno di quegli argomenti su cui si sono da sempre spesi fiumi d'inchiostro, dando vita a contrapposizioni spesso assai aspre. Si finisce inevitabilmente con il parlare del proprio ‘metodo’, e questo in modo quasi altrettanto inevitabile viene contrapposto ad altri ‘metodi’, ognuno poi cercando antenati illustri siano questi trattatisti del presente o del passato piuttosto che famosi cantanti, in un'infinita disputa verbale in cui purtroppo spesso fantasia, leggenda e realtà si mescolano in modo inestricabile.
D’altra parte, non credo si possa negare che questo rapporto è di norma molto più personale di quanto non sia quello che s'instaura fra insegnanti e allievi di altre strumenti o discipline, in quanto investe aspetti e motivazioni anche profondi della personalità assenti in altri casi, e a mio parere di esso non si può parlare in termini asettici e generali (che finiscono con l’essere soltanto generici). Partirò quindi per questo breve intervento dalla mia esperienza - sia attuale come insegnante che passata come studente - e da quella dei miei allievi; i riferimenti al mio ‘metodo’ (che poi ‘mio’ non è per niente, non avendo alcuna folle pretesa di averlo utilizzato io per primo) siano quindi visti come strumenti per sviluppare un discorso che non sia puramente teorico, e non come parte di quell’infinito litigio cui accennavo all’inizio.
Insegnare significa comunicare verbalmente una serie di informazioni; la comunicazione presuppone l’esistenza di un linguaggio condiviso fra coloro che comunicano. Ognuno di noi ha incontrato problemi trovandosi occasionalmente all’estero, non sapendo parlare la lingua del luogo o non potendo in molti casi cavarsela con l’inglese; in genere in qualche modo si utilizzano i gesti, ma mi sembra chiaro che in questo modo si possano riuscire a trasmettere soltanto informazioni molto semplici e di uso comune, non paragonabili a un insegnamento complesso. La mancanza di un linguaggio comune - e quindi l’impossibilità di una comunicazione/insegnamento complessi - è proprio la principale caratteristica dell’iniziale rapporto fra maestro di canto e allievo. Se non si riesce, da parte dell’insegnante, a eliminare questo problema in tempi molto brevi, la persistenza
dell’incomprensione produrrà a lungo andare danni più o meno gravi, sia in termini di salute vocale e di mancato apprendimento che - forse, soprattutto - in termini di autostima e di una corretta valutazione di sé nell’allievo.
Molto spesso vengono usati termini che nel linguaggio comune non hanno alcun significato, come i classici ‘voce in maschera’ o ‘appoggio sul fiato’, senza in alcun modo spiegare all’allievo che cosa essi vogliano significare e credendo/sperando che la sola forza di queste parole sia in sé tale da agire come la levatrice di Socrate per far nascere un nuovo cantante. Altre volte i termini diventano una sorta di formula magica che in quanto tale non richiede spiegazione alcuna (tutte quante da me ascoltate nella mia‘carriera’ di allievo): si va dal pittoresco ‘metti la voce nel piccolo degli occhi’, al poetico‘pensa a dei bambini che giocano sull’erba’, all’un po’ sgradevole ‘vomita il suono’!
Tutto ciò ritengo non risolva il problema della comunicazione né che crei un linguaggio condiviso e il più possibile privo di fraintendimenti, cosa che invece può fare una semplice spiegazione dei fondamentali meccanismi fisiologici fonatori e respiratori in modo che l’allievo comprenda sin da subito che la voce parlata o cantata è prodotta dall’azione concomitante e armonica di una serie di muscoli, alcuni più importanti di altri e dei quali possiamo iniziare ad apprendere l’utilizzo con facili esercizi. Questo non significa assillare l’allievo come se dovesse preparare una tesi di laurea in Fisiologia dell’Apparato Vocale, ma piuttosto fargli capire come anche il canto - nei suoi fondamenti - si basa su quei meccanismi di causa-effetto tipici di qualunque attività umana e non su sue proprie caratteristiche avulse dalla quotidianità. Nel mio caso particolare, questo tipo di approccio mi è stato molto utile - oltre che ovviamente con allievi italiani - anche con studenti stranieri e orientali, per i quali spesso le nostre parole tendono ad assumere significati e sfumature per noi imprevedibili.
Superato in questo modo lo scoglio iniziale, si potrà quindi procedere approfondendo di volta in volta gli argomenti necessari e affrontando con lo stesso principio i problemi che nel corso dello studio si pongono, compresa la spiegazione dei termini già citati come‘voce in maschera’ e simili, in maniera che tutto diventi più chiaro e lineare.
Ora però occorre parlare del secondo aspetto, cioè quello riguardante le dinamiche psicologiche che il canto scatena in chi ne intraprende lo studio, con le insicurezze, i deliri di onnipotenza (il baritono che dopo sei mesi di lezione si mette a studiare "Il balen del suo sorriso", soddisfatto e gongolante perché il sol della cadenza mi viene!), le paure anche profonde che talvolta emergono. Spesso alcuni problemi persistono, sono irriducibili a qualunque tipo di rimedio, esercizio, tecnica, e non si trova una soluzione sino a che l’insegnante, parlando con l’allievo, non capisce quale sia la ragione profonda per cui il difetto continua a ripresentarsi. In genere si tratta di incomprensioni, di errori di poco conto che si sono ingigantiti sino a diventare macigni in mezzo al percorso.
Altre volte - quasi come in una specie di seduta psicanalitica - si scopre che le
motivazioni di un certo comportamento vocale reiterato ed errato sono da ricercarsi in convinzioni o meccanismi psicologici che solo in maniera accidentale riguardano il canto, ma che tuttavia sono tali da impedire o limitare molto una performance professionale.
Il buon insegnante, il maestro capace, deve quindi essere il più possibile attento al carattere e alla psicologia dell’allievo, deve cercare in una parola di ‘capirlo’ - in relazione al canto - anche più di quanto l’allievo non capisca se stesso, e di essergli vicino con onestà intellettuale e rigore nella sua evoluzione vocale e di futuro artista. Ma deve anche rimanere distaccato, perché è più che ovvio che molto spesso una situazione si giudica meglio dall’esterno, anziché essendone coinvolti a livello emotivo. In questo modo si può forse riuscire a evitare entrambi i deleteri eccessi così spesso presenti nei rapporti maestro di canto-allievo, e che così tanti problemi provocano nell’allievo sia a livello emotivo che di apprendimento.
Se si perde il necessario distacco, da un lato potremmo avere l’insegnante che diviene amico e confidente degli allievi sino a che questo ruolo diventa predominante rispetto alla trasmissione di conoscenza; tale ruolo va quindi incontro a tutti i problemi che possono sorgere nei rapporti affettivi, con possibilità di litigi e di incomprensioni per cose che nulla hanno a che fare con il canto, ma anche alla possibilità che in qualche modo l’insegnante voglia creare una sorta di nuovo se stesso, quasi fosse un genitore per il quale i figli siano non degli esseri indipendenti ma un’estensione delle sue paure, speranze, insicurezze. Oppure - all’opposto - l’insegnante che giudica gli allievi in relazione alle proprie simpatie estranee alla sua funzione di educatore, e allora l’allievo‘preso di mira’ non farà che sbagliare, mentre il ‘favorito’ sarà sempre riempito di complimenti. Entrambi, purtroppo, non impareranno nulla, ma l’allievo ‘preso di mira’ sarà più fortunato perché forse prima o poi, stanco della situazione, cambierà insegnante.

Valter Carignano
 
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