Maestro Triola, intanto congratulazioni per il suo nuovo incarico di direttore artistico del Festival della Valle d'Itria...
Grazie....
Quanto sente il peso di un'eredità importante come quella del Maestro Segalini?
Molto, soprattutto di questa storia meravigliosa, di questo Festival... anche perchè la cosa che differenzia questo mio incarico qui a Martina Franca rispetto ad altri che ho assunto altrove durante i vent'anni della mia storia professionale è che i due nomi che mi hanno preceduto hanno condotto il Festival per due periodi talmente lunghi che è impossibile non confrontarsi, non avere un senso di grande rispetto e di attenzione per quello che è stato fatto. Rispetto ad un teatro lirico dove magari un direttore artistico è in carica per due, tre o quattro anni, qui parliamo di due persone che hanno retto complessivamente per trentaquattro anni, per cui parliamo di storia e non di passaggi rapidi. Ovviamente il senso della responsabilità non deve ne' paralizzare ne' incutere timore. Sostanzialmente credo che la posizione giusta da assumere sia quella di avere due obiettivi: il primo, imprescindibile, è quello di salvaguardare ad ogni costo l'identità di questo Festival che si riassume nella formula che il Festival stesso ha saputo esprimere, una formula vincente, appassionante e stimolante per un direttore artistico, ovvero quella della scoperta e della riscoperta di titoli, autori, ambiti e repertori.
Il Festival sembra infatti aver mantenuto la peculiarità di cui Lei parla che potremo sintetizzare, se mi permette, in “tradizione e innovazione”. Un segno quindi di continuità con il passato che ha rispettato nei suoi criteri di scelta?
Assolutamente sì. E' importante la continuità con il passato, mantenere strenuamente ancorato il profilo identitario di questo Festival in un mondo che si sta, mi permetta il termine brutto e abusato, globalizzando, anche nel nostro ambiente. Nei teatri, dai più importanti del mondo a quelli di provincia e di tradizione, il repertorio rappresentato si riduce sempre di più a pochi titoli, quelli che fanno cassetta facilmente e che in un momento di crisi assicurano ai direttori di riempire la sala. E' una globalizzazione che banalizza la nostra professione, che non educa il pubblico, che semplicemente va a traino di pregiudizi e preaspettative e che non fa che colmare un'esigenza che oltrettutto non risolve i problemi del settore. Bisogna rivitalizzare il significato di teatro musicale con delle proposte che lo tengano vivo ed educare e formare un pubblico nuovo che ci garantisca il tramandare di questa meravigliosa tradizione, un pubblico cui bisogna dare credito di intelligenza, specialmente ai giovani. Per cui il profilo identitario di un Festival che ha fatto del coraggio di scoprire e di riscoprire il proprio vessillo, è assolutamente prioritario. Dunque, una volta detto “manteniamo l'identità ad ogni costo, difendiamoci dall'attacco della globalizzazione e della banalizzazione”, ecco il secondo obiettivo: rileggere - e qui interviene la mia personalità - lo spirito di questo brevetto e di questa identità, capire che cosa significa scoprire, riscoprire, proporre titoli, ambiti e autori nuovi, misconosciuti e conosciuti e lavorare su una doppia direzione: sforzarsi il più possibile in una ricerca strenua e spasmodica di autori, opere e titoli sconosciuti o misconosciuti ma che abbiano la potenzialità del capolavoro. Proposte, cioè, che una volta passate a Martina Franca non ci muoiano dopo due recite, ma che possano farsi scoprire, apprezzare e a quel punto cominciare a circuitare nel mondo del teatro musicale.
Mi faccia un esempio....
Ad esempio, le tre opere che abbiamo scelto per altrettanti motivi diversi. “Napoli milionaria!” perchè è un'opera che è stata maltrattata violentemente dalla critica degli anni settanta una volta che andò in scena a Spoleto mentre fu accolta da un grande successo di pubblico cui piacque moltissimo. Naturalmente la musica di Rota e il teatro di De Filippo avevano tutti i numeri per arrivare al cuore del pubblico, ma la critica invece, per ragione extramusicali e ideologiche, archiviò questa operazione con molta acrimonia. Credo invece che oggi quest'opera, a distanza di 33 anni, passata quindi alla storia e non solo alla cronaca musicale, possa essere riscoperta e riascoltata con orecchie nuove. E sono convinto che questa, come tutta l'opera di Rota, possa trovare uno spazio esecutivo di tutto rispetto non solo in Italia, ma in ogni parte del mondo. Quindi, una riscoperta di Rota e dei suoi valori musicali e teatral-musicali.
Analogamente il “Gianni di Parigi” è un'opera bistrattata e nata sfortunata già ai suoi tempi, per ragioni storiche che i musicologi ci hanno brillantemente raccontato. Ma tra quelle sconosciute di Donizetti credo che più di altre possa incontrare il favore del pubblico. E' un'opera godibilissima, di grande inventiva melodica, dove lo sfogo vocale dei due protagonisti - se gli interpreti sono all'altezza e tutto lascia pensare che i nostri lo siano - può veramente regalare al pubblico un grande godimento d'ascolto. E quindi è un'opera che può essere sicuramente pensata nel circuito dei repertori, per cambiare ogni tanto, per non fare sempre Elisir d'amore, La figlia del reggimento, Il Don Pasquale... E' comunque Donizetti, musicista capace di scrivere come pochi altri per le voci. Infine “Rodelinda” per motivi ancora diversi è un'opera che è stata trascurata nel nostro paese - e sottolineo nel nostro paese - perchè è uno dei sommi capolavori del teatro musicale barocco, anzi, come scrisse Celletti “del teatro musicale di tutti i tempi”. Negli ultimi 30 anni, dopo che Handel è stato riscoperto, è stata rappresentata nei più grandi teatri del mondo come al Metropolitan di New York, nei più prestigiosi festival internazionali, in Germania e in Francia... ma in Italia è la prima volta che l'ascolteremo e la vedremo in scena nell'edizione critica recentemente approntata. In questo caso è la riscoperta, la riproposta di un capolavoro che, per trascuratezza o ignoranza, è stato finora ignorato.
Per cui tutte e tre le opere in cartellone hanno le caratteristiche per entrare nel giro, essendo tra l'altro molto diverse tra loro: parliamo di un capolavoro assoluto come Rodelinda, di un piccolo gioiellino molto gradevole come Gianni di Parigi e di un oggetto misterioro e bistrattato come l'opera di Rota.
Dunque Rodelinda in prima assoluta in Italia. Il Festival vanta però anche altre prime. E grandi artisti. In un periodo così difficile in Italia per la cultura, e soprattutto per la lirica, con i tagli in Finanziaria e il decreto Bondi per gli enti lirici, come si fa a mantenere un livello così alto?
Con degli sforzi inenarrabili che passano soprattutto per due strade. La prima è il coraggio delle idee, che diventa fattivo nel momento in cui le idee non sono semplicemente accademiche, ma supportarte e suffragate da un convincimento ideale e direi quasi etico, cioè una fede assoluta e totale nelle possibilità aggregative, educative, socializzanti e identitarie del teatro e del teatro musicale. Quindi credendo fortemente che una proposta culturale possa fungere sì da volano economico, ma anche da catalizzatore di identità spirituali per la collettività che ha bisogno, oggi più che mai, di ritrovarsi in spazi aggregativi di qualità e di livello, dove abbia senso parlare di cultura, di civilità, di tradizione, di radici e di identità comuni. La seconda è uno sforzo che cerca di raggruppare talenti ed energie di grandi artisti importanti che vengono a Martina Franca in questo caso per un legame di amicizia, affetto e stima con il direttore artistico, per cui abbiamo potuto mettere su tre titoli impegnativi come questi che richiedono grandi cantanti. E li avremo. Perchè questi artisti hanno accettato l'invito e la sfida, hanno capito il senso della scommessa e tutti insieme, come una catena ideale, hanno deciso di venire qui con la nuova direzione artistica per portare avanti un progetto, essendo loro stessi professionisti che vivono e soffrono la crisi del momento. Per cui dove c'è profumo di idee, di progettualità, di proposta, naturalmente si concentrano passioni, talenti e energie.
Protagonisti illustri, dunque, in questo Festival, ma anche molti giovani debuttanti, sia tra i compositori che tra i cantanti. Tra i vostri impegni quindi la promozione di nuovi talenti, ma anche l'avvicinamento dei giovani alla lirica. Una grande importanza alle nuove generazioni...
Assolutamente. C'è questa progettualità, nata quest'anno con una serie di lavori di preparazione, cominciata mesi fa, per tutte le fascie di età, dalla scuola elementare fino all'università, coinvolgendo i ragazzi sui tre diversi titoli con progetti diversi, a carattere divulgativo, didattico e formativo e su tracce drammaturgiche, musicali, letterarie e teatrali. E' importantissimo perchè dobbiamo lavorare per far si che l'opera lirica, che è una delle radici più solide della nostra identità, venga percepita come tale dai giovani di oggi perchè fra loro si annidano dei talenti, ma anche degli interessi e delle aspettative. I giovani sono assetati, non solo di esprimere il proprio talento - e qualcuno deve aiutarli a riconoscerlo - ma di messaggi, ambiti dove crescere, dove confrontarsi con la tradizione, con il proprio essere italiano, europeo, occidentale, il loro essere uomini di questo mondo nel terzo millennio. L'opera lirica che ha 400 anni di storia, ma che affonda le radici nel teatro ateniese, è un'astronave straordinaria verso il futuro. Per cui l'impegno per i giovani è fondamentale. Così come portarli a teatro, farli incontrare con gli artisti, far scoprire loro che chi sta sul palcoscenico spesso e volentieri è un coetaneo. Noi quest'anno abbiamo artisti di venti, ventidue, ventitrè anni, ragazzi che hanno scelto questa professione... e abbiamo programmato una serie di incontri durante il Festival tra i giovani interpreti e i giovani fruitori. Inoltre nel prossimo autunno ripartirà l'Accademia Paolo Grassi per giovani cantanti, quindi avremo anche un impegno organico strategico nella formazione di talenti. Se non pensassimo ai giovani e ci fermassimo ad accontentare la figura stereotipata del melomane o dell'appasionato che purtroppo, oggettivamente, è quella di un signore/signora anziano/a e benestante che va a teatro il più delle volte per essere rassicurato/a e passare una serata in società a vedere qualcosa che già conosce e che ha visto venti volte per poter fare dei confronti con le interpretazioni del passato, limitarsi a progettare opere per questo tipo di pubblico, sarebbe, alla lunga, un suicidio.
Vorrei chiudere proprio sui giovani. Nella situazione difficile di cui abbiamo già parlato, quanto è dura per loro? Quale, secondo Lei, il futuro dei ragazzi che vogliono lavorare con questa passione e farne la loro vita, come ad esempio gli allievi di canto?
Guardi, la risposta più brutale e cinica che potrei darle è: l'estero. Ed è una risposta triste e molto penosa.
Condivido.
Questa però è la realtà in questo momento. Io sono anche direttore della Scuola dell'Opera Italiana del Teatro Comunale di Bologna, una realtà di alto perfezionamento che, giunta al terzo anno di attività, sforna ogni anno direttori d'orchestra, registi, cantanti e pianisti che vengono da tutto il mondo a studiare in Italia. Perchè sanno che qui è la culla, non solo per ragioni storiche e di tradizione, ma anche per una ragione molto tecnica e trascurata dai nostri amministratori: la lingua italiana. È la lingua ufficiale ed universale della musica e del canto.
Peccato che però poi se ne dovranno andare...
Oggettivamente in questo momento l'Italia produce poco e produrrà sempre meno. All'estero invece, le statistiche lo dicono, l'Opera va bene, riempie i teatri, anche di giovani, le cose più importanti avvengono, ahime', all'estero. Però la risposta cinica non può essere l'unica che diamo.
Io ho quarantaquattro anni, da venti faccio questo mestriere e mi piacerebbe farlo per il resto della vita con questa tensione ideale: dobbiamo assolutamente non mollare, tenere alta la tensione della consapevolezza, della responsabilità che abbiamo sulle spalle e al tempo stesso trovare però delle strade nuove. Dobbiamo renderci conto che se siamo arrivati a questo punto del sistema, è in buona parte per responsabilià di chi questo sistema ha amministrato in tutti questi ultimi trent'anni. Perchè io che ho lavorato anche ai vertici di fondazioni lirico sinfoniche importanti, ho vissuto in prima persona delle aberrazioni assolutamente ingiustificate, ingiustificabili e fuori dal mondo. Per cui il sistema si è autoalimentato di perversioni normative, organizzative, di spirito di corporazione fine a se stesso, anche con la complicità di molti amministratori pubblici che hanno visto le nostre fondazioni liriche come serbatoi vuoti, come deposito di personale pubblico da piazzare, diciamo le cose come stanno. E' anche vero che oggi bisognerebbe avere il coraggio di dare la gestione dei teatri in mano a professionisti che conoscono il teatro, nati e cresciuti all'interno di queste strutture, che abbiano il coraggio di partecipare ad un progetto organico con la politica di oggi per un rinnovamento vero e sano, ma che non umili in nessun caso i professionisti di questo settore. Che, ricordiamolo, sono persone che studiano anni per diplomarsi ad un Conservatorio, che fanno sacrifici immensi per esprimere un talento che in molti casi per loro è ragione di vita, perchè se un artista non riesce ad esprimere se stesso, muore spiritualmente e la società perde delle potenzialità. Per cui grande lucidità per chi amministra, grande trasparanza, grande rigore, grande consapevolezza etica per questa professione, ma da parte di chi governa la cosa pubblica non ci deve essere un atteggiamento di lontananza, di pregiudizio e di noncuranza.
Lei è contrario al decreto Bondi, diciamola tutta...
Questo decreto ha avuto un percorso in Parlamento molto tormentato. Mi rendo conto che è nato da intenzioni anche condivisibili, ma l'Italia è un paese dove le intenzioni vengono rese zoppe cammin facendo da mille pressioni e mille necessari compromessi, per cui alla fine si va avanti con i rattoppi. Cosa posso dirle, che è difficile gestire questo problema in un paese che ha ignorato, ripeto, ignorato organicamente e in modo quasi ideologico la musica e la cultura musicale oramai da 150 anni. Purtoppo l'atteggiamento della classe intellettuale e dirigente che ha solo inteso l'unità d'Italia non ha mai avuto in mente di contemplare la musica all'interno dell'educazione delle classi dirigenti del futuro. Il fatto che un giovane vada al liceo e studi la filosofia, la storia dell'arte e la fisica e quindi che sappia più o meno chi sono Leibniz, Dante Alighieri e Newton, ma che può tranquillamente ignorare l'esistenza di Verdi e di Beethoven, e che un domani questo giovane possa trovarsi nella classe dirigente di questo paese ignorando la musica e la cultura musicale, questo la dice lunga. E' questo che stiamo pagando esattamente, un vuoto totale di cultura musicale e di consapevolezza del valore della musica e del teatro all'interno della formazione dei nostri giovani. Purtoppo i teatri lirici che stanno affogando tra mille problemi si trovano a supplire anche a questo compito, cercando in tutti i modi, come è giusto che sia, di sforzarsi nella direzione dell'educazione e della divulgazione. Ma non sarebbe il loro precipuo compito. Eppure vengono a teatro ragazzi e ragazzini che non sanno nulla e nessuno insegna loro il valore della musica. Per cui è un'impresa disperata. Ed è una cosa....
Triste....
Sì.
Patrizia Simonetti
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